Digital Bonton by Irina Tirdea
DIGITAL BONTON by Irina Tirdea, Style Advisor
“Lezioni di Stile”, IRIS TV
Coronavirus, nel caos c’è chi diffonde “fake news” .. e si nasce “l’infodemia”!
Che cosa sono le ”FAKE NEWS”?
Innanzitutto, definiamo cosa sono le “fake news” o meglio dire le “bufale”, che ormai sono diventati una specie di passepartout per indicare un fenomeno globale. Ma il rischio è quello di una semplificazione eccessiva: dietro a questa definizione generale si nascondono, infatti, tanti tipi di “informazione avariata”. Ci sono le notizie false vere e proprie, inventate di sana pianta, ma anche quelle distorte, con un uso parziale dei dati o con titoli che annunciano qualcosa che non corrisponde al contenuto dell’articolo. Nelle “bufale” possiamo far rientrare anche alcune creazioni satiriche, che però hanno la peculiarità di fornire degli indizi chiari, disseminati qua e là, per far capire a chi legge che si tratta non di una notizia vera, bensì di una presa in giro.
Il meccanismo su cui fa leva il fenomeno delle fake news: colpirci al basso ventre, farci arrabbiare, giocare sulle nostre emozioni più viscerali: ad esempio il “Coronavirus”:
Il diffondersi del Coronavirus ha portato ansia e preoccupazione, le autorità hanno invitato alla calma e al senso di responsabilità, fondamentale è seguire le indicazioni diramate dai canali ufficiali. Purtroppo, ignorando ogni regola del buon senso, c’è chi ha deciso di creare caos e incertezza, nonostante vi sia in gioco la salute di tutti, mah d’altronde le ”vittime collaterali” sono sempre servite ad ottenere variati scopi, non necessariamente positivi.
In che modo è possibile riconoscere le fake news? Ci sono, ovviamente, molte strategie, dalle più semplici alle più tecniche (così come ci sono livelli crescenti di complessità e astuzia da parte dei creatori di bufale). I titoli “urlati”, gli errori grossolani di ortografia e grammatica, un uso smodato delle maiuscole, le foto “ritoccate” sono tutte spie d’allarme. Salendo di livello, è bene tenere d’occhio l’URL (cioè l’indirizzo) del sito: a volte i hacker giocano su assonanze e modifiche dei nomi di testate ufficiali.
Ci sono poi gli articoli che riportano dati, sondaggi e commenti senza riferirne le fonti, mentre una delle regole del “buon giornalismo” sarebbe proprio quella di rendere sempre chiaro quali siano i riferimenti da cui provengono le notizie o le analisi.
L’informazione digitale è come un oceano. Le fake news sono i detriti che ostacolano la buona navigazione. È nell’interesse di tutti cercare di limitarne la diffusione, per poter usufruire di un’informazione “pulita”, chiara, verificata, accessibile.
Altrimenti saremo sempre in balia di forze strane e sconosciute, sballottati da tempeste e uragani,
di virus letali …
Utilizzare il nostro spirito critico, tenerlo in addestramento, affinarlo, è lo strumento migliore per difenderci da chi vuole utilizzare il Web per manipolare le nostre opinioni, per allontanarci dalla pratica quotidiana dei nostri diritti di cittadini, per trasformare le nostre società democratiche basate sul dialogo in luoghi di scontro e lite perenne tra fazioni inconciliabili tra loro.
È possibile educare i giovani ad un uso consapevole del web? Dirò di più: non solo è possibile, è necessario. Perché la scuola è il momento in cui, forse per l’ultima volta nella vita, ci troviamo tutti riuniti e messi nella condizione di poter ragionare insieme sul mondo che ci circonda. È il luogo perfetto in cui lavorare, insieme, su un approccio critico all’informazione. E le ragazze e i ragazzi non hanno voglia di essere fregati, non hanno bisogno di sentirsi dire da qualcuno come pensarla, non amano (come del resto gli adulti) un approccio paternalistico che li indirizzi verso ciò che altri ritengono sia “vero” o “falso”. Quello di cui hanno bisogno è di confrontarsi con interlocutori che non abbiano paura di raccontare rischi e potenzialità di uno strumento – la Rete – che è ormai entrato a far parte del nostro quotidiano, senza demonizzarlo né esaltarlo, ma semplicemente spiegando come possiamo usarlo nel modo migliore per diventare cittadini indipendenti, responsabili, critici.
Viviamo nell’era della post-verità: quali sono le implicazioni per la società e la nostra vita quotidiana? Se con post-verità intendiamo la scomparsa della verità (o, per meglio dire, quello che di più vicino alla verità si sia riuscito a stabilire) dal mondo dell’informazione, be’, ci stiamo sbagliando. Il fenomeno a cui stiamo assistendo è la tendenza di una buona parte dell’opinione pubblica ad affidarsi alle emozioni e alle opinioni più che ai dati e ai fatti, anche e soprattutto quando ci si trova a dover prendere delle scelte in ambito personale o pubblico. E la Rete è fatta in modo tale da enfatizzare questa tendenza, spingendo le persone a ricercare il conforto dei gruppi di amici o di utenti che condividono posizioni e ideologie simili, restando così intrappolati nelle nostre “bolle di filtraggio” e perdendo la capacità di confrontarci con universi di pensiero diversi dal nostro. È sempre più necessario, anche per la tenuta della nostra società democratica, riflettere su questi meccanismi ed escogitare modalità per aggirarli e per limitare la loro influenza sulla nostra vita.
Quale futuro per l’informazione in Rete? Questa è la domanda da un milione, anzi un miliardo, di dollari, quella cui tutti vorremmo saper rispondere. Ovviamente le teorie sono molteplici, e si va dagli iper ottimisti ai pessimisti. Io mi colloco, per così dire, nel mezzo. Quello di cui sono convinta è piuttosto la necessità di investire non tanto su interventi draconiani di censura e punizione per quanto riguarda l’informazione in Rete, bensì sulla ricerca. Sappiamo ancora poco dei meccanismi sottesi alla conoscenza digitale, così come in fondo poco abbiamo potuto esaminare le dinamiche di diffusione delle fake news, il loro comportamento, il loro uso ed abuso. Sono fenomeni assai complessi, che coinvolgono moltissimi aspetti dell’analisi dei cosiddetti big data, della tecnologia, ma anche del pensiero filosofico e delle scienze umane.
Stiamo proprio vivendo dei tempi, situazioni d’emergenza, dove il fenomeno delle “fake news” a creato caos e sviluppato paure esagerate. L’epidemia da coronavirus Sars-CoV-2 in Italia sarà un caso di studio per comunicatori e scienziati sociali per molto tempo. Dalle prime notizie da Wuhan esempi di allarmismo sui nostri media (quando non di vero e proprio sciacallaggio) non si contano. Per questo almeno in parte bisogna ringraziare una comunicazione istituzionale inadeguata. Gli influencer intanto battibeccano, e così i loro pubblici: il conflitto diventa una notizia e si aggiunge all’infodemia. E poi, ovviamente, ci sono le bufale e i complotti, come sempre: ma questa volta sembra più chiaro che le fake news siano comprimarie, più che protagoniste. Ora le stesse fonti di informazione stigmatizzano comportamenti come l’assalto ai supermercati, cioè l’accaparramento di merci da parte della popolazione. In inglese si parla di panic buying e anche da noi panico, isteria e psicosi sono parole molto usate per caratterizzare questi fenomeni. Eppure la realtà è più complessa.
Psicologia e crisi
Sono state decise e comunicate misure eccezionali, tra cui quarantene e chiusure di luoghi pubblici. Ai cittadini si è raccomandato di evitare luoghi affollati. Nelle nostre reti sociali, reali e virtuali, ne parliamo di continuo. Cerchiamo di adattarci, chi può si attrezza col telelavoro. E per la spesa in molti hanno pensato di comprare più del normale. Non è panico questo – è una reazione che ha una sua razionalità, date le informazioni ricevute.
Non si vogliono negare nemmeno le tensioni tra le corsie, o che qualcuno abbia creduto a false notizie, come quella di una Milano in quarantena. Il punto è che programmare un accumulo di risorse, dettato probabilmente più dall’aver capito e accettato la strategia di isolamento, che dalla paura della malattia in sé, è un po’ difficile da chiamare panico (il panico di massa è più mito che realtà), è meglio dire che le persone non muoiono per il panico, vanno in panico perché stanno morendo.
Come comunicare?
I media faticano a rinunciare alla storie sulla gente che impazzisce, perché la cronaca nera ha sempre venduto meglio delle informazioni. Comunque non è un problema italiano. Per esempio dopo l’uragano “Katrina” televisioni e giornali ci hanno dipinto una New Orleans precipitata nella violenza, anche se non era affatto così.
Ma se uno scaffale vuoto è una notizia anche in tempi normali, non si può certo pretendere che i media non parlino delle code e mostrino le immagini dei supermercati affollati. Come si possono raccontare fenomeni come questo in maniera responsabile? Forse sarebbe bastato dare tutta l’informazione sulla realtà.
I supermercati affetti sono stati comunque una minoranza. Non erano preparati, ma la situazione è tornata alla normalità in brevissimo tempo. Era importante dare voce agli esperti giusti. Così come non tutti gli scienziati sono addetti ai lavori quando si parla di clima, lo stesso vale per i fenomeni di competenza delle scienze sociali.
Detto questo, lascio a voi, al vostro buon senso di leggere con attenzione e fare lo screening giusto di questa mia tesi.
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